A pochi giorni dall’evento di Piazza San Giovanni, in cui per un milione di volte è stato detto “stop al gender nelle scuole”, la politica ha permesso che passasse nel DDL di riforma della scuola uno strumento ufficiale di introduzione dell’educazione di genere nel sistema di istruzione italiano. Vediamo in dettaglio di cosa si tratta.
Nel maxi emendamento del DDL Buona scuola al punto 16 si fa riferimento al Decreto Legge 93/2013, poi convertito in Legge 119/2013, che all’art. 5 comma 2, lett. c richiama il documento “Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere”. Ecco il passaggio che dobbiamo sforzarci di seguire con attenzione. In questo documento, che è già legge a tutti gli effetti e investe vari ambiti, sono previste linee di azione specifiche nel campo educativo, le quali richiedono esplicitamente l’introduzione nelle scuole di percorsi formativi e di un’adeguata formazione, secondo i principi dell’educazione di genere.Va detto che purtroppo il linguaggio presente in questi documenti non sempre è chiaro a tutti, ma l’intento è evidente ed è altissimo il rischio che quanto in essi contenuto venga applicato in maniera ideologica.
Come facciamo di solito, quindi con l’obiettivo primario di chiarire e consentendo a ciascuno di maturare una propria idea (mentre i media ci bombardano con slogan del tipo “il gender non esiste”, “il gender non è nelle nostre scuole”, “il gender non è entrato nella Buona scuola”), a titolo di esempio riportiamo di seguito un passaggio del citato Piano di azione. A pag. 18:
Obiettivo prioritario deve essere quello di educare alla parità e al rispetto delle differenze, in particolare per superare gli stereotipi che riguardano il ruolo sociale, la rappresentazione e il significato dell’essere donne e uomini, ragazze e ragazzi, bambine e bambini, nel rispetto dell’identità di genere, culturale, religiosa, dell’orientamento sessuale, delle opinioni e dello status economico e sociale, sia attraverso la formazione del personale della scuola e dei docenti sia mediante l’inserimento di un approccio di genere nella pratica educativa e didattica.
Nell’ambito delle “indicazioni nazionali” per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, per i licei, per gli istituti tecnici e professionali, il governo provvederà ad elaborare un documento di indirizzo che solleciti tutte le istituzioni scolastiche autonome ad una riflessione e ad un approfondimento dei temi legati all’identità di genere e alla prevenzione della discriminazione di genere, fornendo, al contempo, un quadro di riferimento nell’elaborazione del proprio curricolo all’interno del piano dell’offerta formativa.
Andiamo poi avanti a leggere a pag. 28:
Nella definizione di percorsi formativi sensibili al genere, gli obiettivi da perseguire dovranno prevedere la rivalutazione dei saperi di genere per combattere stereotipi e pregiudizi; la valorizzazione delle differenze per prevenire fenomeni di violenza sessuale, aggressività e bullismo; il riconoscimento dell’identità di genere per rinforzare l’autostima; la disponibilità al dialogo per conoscere e superare i conflitti tra generi diversi.
Ci sembra tutto molto chiaro: l’Italia sta lasciando che nella riforma della scuola venga introdotto il termine identità di genere, sotto lo specchietto per le allodole delle norme anti-bullismo e anti-discriminazione.
Allora, una volta per tutte, è assolutamente necessario comprendere che la partita è cominciata decenni fa: si gioca sull’utilizzo di una neo-lingua, che si fa strada sulla confusione ingenerata dai termini coniati con la visione di genere e fa leva sull’ignoranza del significato di tali accezioni, che entrano nelle leggi e nei dispositivi amministrativi e burocratici. Tutto ciò non è per niente chiaro a molti semplici cittadini e persino a diversi politici. Ad esempio cosa significa “identità di genere”?
Non si tratta dell’indentità sessuale (essere maschio o femmina, legato al dato biologico), ma la percezione soggettiva di appartenere ad un dato genere a prescindere dal sesso biologico (quindi il “sentirsi” maschio o femmina), genere inteso come esito di una costruzione/costrizione culturale ed educativa e non come dato ontologico.
Il concetto di una identità di genere distinta e distinguibile da quella biologica e “opzionabile” (esiste davvero?) deriva dall’esperimento sui gemelli Reimer, due maschietti di cui uno venne educato come “femmina” dal dottor Money, tra i primi teorici del gender. Lo psicologo intendeva sperimentare sul campo la distinzione tra i due aspetti del sesso biologico e dell’identità sessuale, dimostrando la natura puramente culturale, costruibile (e decostruibile) del genere. Proprio da quella iniziale frode scientifica prese avvio la gender theory; si tenga presente che nella pubblicazione scientifica che ne seguì, David risultò educato con successo ad essere “Brenda” e solo molti anni dopo venne a galla la tragica verità: David/Brenda dichiarò pubblicamente le angherie fisiche e psicologiche cui venne sottoposto nella gender clinic, da parte di chi aveva bisogno che lui fosse la “prova” vivente di una bizzarra teoria; purtroppo la realtà è che il trattamento riservatogli, condusse David/Brenda al suicidio.
Oggi tutte le più potenti istituzioni trans-nazionali e nazionali stanno spingendo l’agenda di genere in un continuo processo di decostruzione dei modelli sessuali familiari e sociali. In primis l’ONU, che diffonde e impone il gender fin dalla Conferenza di Pechino del 1996, dove il termine – la cui voluta ambiguità confuse le delegazioni nazionali in particolare del sud del mondo – entrò grazie al cavallo di Troia dei diritti delle donne (sostenuti nella loro accezione di diritti sessuali e riproduttivi), fino ad essere riportato oltre 200 volte negli atti finali delle diverse commissioni di lavoro ed affermarsi come mainstream imprescindibile nelle politiche di sviluppo e di difesa dei diritti umani a livello globale, con la sua essenza di agente di rivoluzione sociale. Introdurre oggi nella scuola pubblica del futuro l’educazione di genere quindi non vuol dire parlare di rispetto tra donne e uomini, ma significa far confluire nella scuola e nella società di domani – come attraverso un grande imbuto – tutto questo entroterra culturale e sociale, dai connotati sempre più radicali.
Per chi avesse ancora dubbi vi invitiamo a sfogliare qualche guida didattica per l’educazione di genere già in circolazione: il termine genere lasciato in un’accezione volutamente ambigua, dopo il primo significato di rispetto per le donne svela ben presto il suo nucleo ideologico, il significato di indifferentismo sessuale che sarà inesorabilmente quello in cui metteremo a bagno i nostri bambini e ragazzi. Qualche pagina dopo il femminicidio, il quale verrebbe eliminato abbattendo i famigerati stereotipi sessisti (anche se ancora questo non ci hanno detto chi lo abbia dimostrato), spuntano sempre l’omofobia e la non discriminazione in base all’orientamento sessuale, nell’accezione di fluido e indipendente dall’identità biologica.
Questo è il gender. E il gender nelle nostre scuole c’è già.
C’è il gender nei libricini con cui nella scuola dell’infanzia si affrontano sotto forma di belle fiabe temi sensibili quali l’orientamento sessuale e le bio-tecniche di riproduzione in coppie omosessuali.
C’è il gender nei progetti sul bullismo, in cui si dice a ragazzini tredicenni che il loro orientamento sessuale lo possono scegliere e cambiare a forza di esperienze sessuali di tutti i tipi, visto che alla fine un genere vale l’altro (Facebook e i suoi 56 generi fanno scuola…). E viene sottolineato come l’omofobia sia l’unico problema dell’Italia o della loro confusione adolescenziale (chi ne è stato immune?).
C’è il gender nella strategia dell’UNAR secondo cui la matrice eterosessuale della società è una convenzione pericolosa e dove religioso è sinonimo di omofobo; dove anche i primi problemini di aritmetica sono mirati a veicolare l’omosessualità.
C’è il gender dietro alle formatrici di SCOSSE che si scandalizzano di fronte al family day con un milione di famiglie, nonni e bambini in piazza, ma poi nei loro convegni affermano la necessità di “introdurre il transessualismo nella fascia 0/6 anni” ed attuare gli standard di educazione sessuale dell’OMS. E ammettono che il loro convegno lo chiamano “Educare alle differenze” (e non al genere) proprio per dare minore evidenza al fatto che si tratta di educazione di genere, visto che qualche ignorante oscurantista comincia a sentir puzza di bruciato dietro a questo neologismo così trendy e progressista.
C’è il gender nei testi proposti a scuola come “Educare al genere” (Ed. Carocci), dove a pag. 13 si legge: “demistificare la rigida dicotomia con cui si è soliti pensare alla dimensione del genere… A partire dalla revisione dei concetti stereotipati quali ad esempio l’idea che esistano in natura soltanto due sessi (maschio e femmina) cui corrispondono a livello socio-culturale due generi (uomo e donna)”. Oppure in “Di che genere sei” (Ed. La Meridiana) dove si legge che “L’obiettivo è destrutturare l’ eterosessismo ed i genderismo diffusi” e che “l’identità non è data una volta per tutte, ma si costruisce e si trasforma durante tutta l’ esistenza”.
C’è il gender dietro ad istituzioni pubbliche che finanziano a scuola associazioni come il Cassero o il circolo di cultura omosessuale “Mario Mieli” (da “Elementi di critica omosessuale” di Mario Mieli: “La società repressiva e la morale dominante considerano “normale” soltanto l’eterosessualità e, in particolare, la genitalità eterosessuale. La società agisce repressivamente sui bambini, tramite l’educastrazione, allo scopo di costringerli a rimuovere le tendenze sessuali congenite che essa giudica “perverse” […]. L’educastrazione ha come obiettivo la trasformazione del bimbo, tendenzialmente polimorfo e “perverso”, in adulto eterosessuale, eroticamente mutilato ma conforme alla Norma”. I, 2; p.17).
E’ più chiaro ora di cosa si tratta? Di ridefinire non solo degli stereotipi di ruolo riconoscibili come negativi (donne oggetto e maschi bulli), ma le stesse caratteristiche universali del maschile e del femminile, paternità e maternità comprese. Dal superamento degli stereotipi all’abbattimento degli archetipi: il pacchetto completo è servito per i nostri figli.
Cui prodest? Se questo è il gender mainstreaming, che comincia dalle imposizioni delle quote rosa fino ad insinuare l’ottica di genere in tutti i documenti ufficiali, in tutta la sua voluta ambiguità atta a celarne la progressiva forza sovversiva, non possiamo consentire, senza aver tentato tutto il possibile, che questo diventi patrimonio definitivo e ufficiale del sistema della istruzione pubblica delle prossime generazioni, anche a costo di andare contro il pensiero unico europeo o americano e a costo di serie azioni politiche.
Di fronte ad un ministro che nega che il gender abbia a che fare con la nostra scuola; a un sottosegretario che scrive che “una cosa è la lotta alle discriminazioni e un conto è la teoria gender”; a senatori che votano leggi senza comprenderne le reali implicazioni o restano ingabbiati da logiche parlamentari scollate dalle reali esigenze della società, oggi constatiamo con amarezza una grave mancanza di competenza e lucidità della classe politica. Per quello che riguarda allora le nostre responsabilità, ci assumiamo il compito di dire a oltranza, fino a che avrà valore, che questo emendamento – così com’è – non deve passare.
Lo ribadiamo a gran voce: eliminare dall’emendamento il solo riferimento alla legge 119/2013 non toglierebbe nulla all’essenza della riforma della scuola né all’intenzione di educare al rispetto degli altri contenuto nell’art. 16. Eliminare questo piccolo riferimento consentirebbe invece di non fare entrare pericolose strumentalizzazioni nella scuola, pur praticando una serena educazione al rispetto, che la scuola italiana pratica da sempre con risultati di eccellenza riconosciuti a livello mondiale.
Siamo genitori, educatori, persone che provano a dire la verità a favore di altre persone e dei figli di tutti (non solo dei nostri!) anche attraverso la riaffermazione del valore universale della libertà di opinione e di educazione, che da oggi riteniamo vada difeso in maniera sempre più decisa. Non vogliamo dover dire: era sotto ai nostri occhi, ma io non ho visto o – peggio – non ho voluto vedere.
Sotto la finzione scintillante del politically correct e del pensiero unico, eccolo, il gender c’è.
La nostra piccola Italia, come il bambino della fiaba, scendendo in piazza tra lo stupore dei grandi del mondo, ha esclamato: “Il re è nudo”!
E vuole continuare a farlo.