Il prof2.0 Alessandro D’Avenia ci accompagna in un percorso delicato, conducendoci nella stanza privata in cui l’anima di un adolescente si va saldando per spiccare il volo verso la propria autonomia.
Nostro figlio si è trasformato in un “extraterrestre”? Questo suo improvviso esserci “alieno” certamente ci spaventa, ma va tenuto presente che si tratta del segnale di una crescita, che si configura nell’elaborazione di quello spazio personale che è l’intimità: è cura dei genitori per primi rispettare questo luogo prezioso e insegnare la cura e la difesa di un ambiente che dai ragazzi va riconosciuto e preservato per il resto della vita.
Vi consigliamo la lettura di questo “letto da rifare”
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Gli alieni esistono, anche io come lei li vedo tutti i giorni, sotto mentite spoglie di adolescenti. Tralascio le cause psico-fisiche della trasformazione, perché le ho descritte qualche «letto» fa, raccontando che l’adolescenza non è una malattia, ma vorrei sfruttare la similitudine da lei scelta: l’extraterrestre con cui non si sa come comunicare.
Preferisco la parola alieno, perché l’extraterrestre è lontano dal nostro mondo, mentre sua figlia è inserita nel normale processo di crescita e fioritura che caratterizza i ragazzi di questa Terra. La parola «alieno» era usata in latino per indicare, come aggettivo: «chi o cosa appartiene a un altro», come sostantivo: «lo straniero». Sua figlia sta manifestando, in piena coerenza con la sua crescita e con l’educazione che le avete dato, di essere dotata di libertà, di non appartenervi ma di essere a voi affidata, con la conseguente, dolorosa ma normale sensazione che sia straniera (in questa fase lo è per se stessa prima che per voi). Dimenticate la bambina che si comportava in perfetta continuità con i vostri principi, quasi fosse una vostra estensione, accoglietela in casa come un UFO, come la prima volta che l’avete abbracciata appena nata. Vostra figlia è la sintesi del DNA materiale e spirituale che le avete trasmesso, ma rinnovato in modo inatteso. Il nuovo è sempre accompagnato da sconcerto: vostra figlia è assolutamente inedita, una sorpresa mai vista prima sulla faccia della Terra. É un’aliena che usa una lingua incomprensibile, che non imparerete se continuerete a parlare, oltre quella porta, alla bambina di un tempo.
Anche la porta di cui parla è una metafora utile. Quando vanno a Roma a visitare i Fori chiedo agli studenti perché si chiamano così. Rispondono immancabilmente: «perché sono pieni di buchi». Dopo una risata spiego loro che foris era la porta, e che quindi i Fori erano le porte di ingresso a spazi specifici della città. Poi aggiungo che anche noi usiamo quella parola tutti i giorni, quando diciamo «fuori», che dalla stessa radice indica proprio chi o cosa sta sulla porta di casa, provenendo dall’esterno. Quello che sta facendo vostra figlia è finalmente creare una casa nella casa, uno spazio interiore di cui la porta è il confine fisico e simbolico, e ha la maniglia solo all’interno. Questo spazio si chiama «intimità», parola oggi purtroppo in disuso nel suo significato originario (antico superlativo di «intus»: dentro): la parte più profonda di sé, il dentro più dentro. Si tratta di un luogo in cui noi conversiamo con noi stessi, maturiamo la capacità di leggere dentro (intus legere, da cui intelligenza) noi stessi e le cose che cadono sotto i nostri occhi o accadono nella nostra vita, per poterne giudicare il valore. Che quella porta rimanga chiusa è un bene, perché oltre quella porta si sta ampliando la casa nella casa, l’anima di vostra figlia, la sua intimità, cioè il luogo da cui lei si possiede, per poi poter esplorare con coraggio il mondo. È bene chiedere permesso, non forzare lo spazio sacro, non frugare a sproposito nell’anima dei figli, ma aspettare (anche se costa pazienza e lacrime, senza mai smettere di esercitare la vostra autorità) che siano loro ad accogliere «in camera» ciò che viene da «fuori». Al suo essere «aliena» corrisponde il vostro esser divenuti «forestieri», parola che viene dalla stessa radice di foris e indica ciò che è oltre la porta. Un tempo oltre la porta di casa c’era infatti la foresta, per eccellenza lo spazio caotico e pericoloso da cui vengono appunto i forestieri. Si bussa, e ci si sente dire «chi è?», per valutare se chi arriva può ricevere ospitalità o no, se è amico o nemico. Sulle prime il forestiero è percepito come pericolo, anche se si tratta di mamma e papà, che devono vestire i panni e le parole giuste per poter essere ammessi nell’intimità. Una per una, vostra figlia, dovrà vagliare le cose che le avete insegnato per vedere se può farle sue, se sono vere o meno, se servono a vivere meglio o no: per lei tutto ciò che davate per scontato è diventato forestiero, in particolare i limiti che ponete, di cui ha un bisogno estremo, anche se ve li fa pagare con dazi salati al confine della sua stanza. Sta cercando di riappropriarsi di ciò che le avete trasmesso, ma a un altro livello: quello di chi deve acquisire la libertà personale necessaria a uscire (varcare l’uscio) di casa e affrontare la foresta della vita, scegliendo cosa è indispensabile per «sopra-vivere», cioè vivere fuori, oltre le mura domestiche. Per questo bisogna che i vostri principi siano scossi da altri forestieri, le amiche: siete così costretti a giustificare la ragionevolezza di ciò che le date e dite, e a non accontentarvi del «si fa così e basta». Vi sta chiedendo di trasformarvi con lei, ma senza diventare come lei, cioè rimanendo adulti.
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