“Perché [i medici]non sanno”, continuava Mrs A “se questi ragazzini siano davvero transgender o se attraversino al contrario solo ‘una fase’ della loro vita”, così riporta La Repubblica nell’articolo, pubblicato il 29 luglio scorso, in merito alla vicenda della chiusura del Gender and Identity Development Service (Gids) del Tavistock and Portman NHS Foundation Trust, l’unico centro medico pubblico dell’Inghilterra dedicato ai bambini e ai ragazzi sotto i 17 anni di età con problemi di “identità di genere”.
Il sistema sanitario nazionale britannico (Nhs) ha preso questa drastica decisione dopo i risultati di un’inchiesta indipendente sull’operato della clinica, il cui staff era stato accusato di aver adottato un atteggiamento lassista, se non proprio ispirato a meccanismi d’incoraggiamento indiscriminato, verso la prospettiva di una transizione di genere sessuale anche di fronte a casi embrionali di malessere o d’incertezza di giovanissimi rispetto alla loro identità.
Il Times ha scritto che “il danno fatto è incommensurabile. Nessuno sa quanti anni di dogma ideologico, trattamento inappropriato e una colpevole incapacità di considerare il benessere mentale generale dei bambini curati dalla Tavistock Clinic influenzeranno le migliaia di persone che si sono rivolte al Servizio per lo sviluppo dell’identità di genere”.
E’ da sottolineare inoltre che nel mondo sono sempre più le persone che decidono di tornare indietro rispetto al percorso di riattribuzione del sesso, al fine di identificarsi nuovamente col proprio sesso biologico. Le motivazioni del fenomeno dei “Detransitioners”, così vengono definite queste persone, sono spesso collegate a una diagnosi non adeguata e al non essere state seguite o consigliate in modo appropriato, nonché al fatto di aver subito in questi anni un martellamento crescente anche in ambito mediatico e scolastico.
Tutto ciò deve far riflettere sulla gravità degli atti di sempre più numerosi istituti scolastici che in Italia stanno introducendo nel loro regolamento la cosiddetta “Carriera Alias”.
Che cosa è? Si tratta della creazione di un profilo burocratico alternativo che comporta la sostituzione sui registri scolastici del nome anagrafico dello studente o della studentessa che ne faccia richiesta, con il nome elettivo dell’altro sesso; tale sostituzione avviene addirittura in assenza non solo della conclusione ma anche dell’avvio dell’iter giudiziario diretto alla rettifica anagrafica.
In merito a ciò occorre in primo luogo chiarire che nessuna legge italiana vigente attribuisce agli istituti scolastici una competenza a intraprendere un percorso di questo tipo. La tenuta dei registri anagrafici della scuola è di stretta competenza legislativa, i nomi non si possono variare se non alle condizioni stabilite dalle leggi e dalle sentenze, ad esempio in caso di pronunciamento di un giudice il quale, certificando un rigoroso accertamento delle modalità con cui il cambiamento è avvenuto nonchè il suo carattere definitivo, autorizzi la rettificazione anagrafica. In assenza di tali condizioni la scuola pubblica viola la legge e si mette nelle condizioni di dichiarare il falso (si pensi anche nel caso degli scrutini e in altri atti formali).
La “carriera alias” appare inoltre uno strumento fortemente indirizzato in senso ideologico, poiché affronta in maniera molto superficiale problematiche o stati d’animo emotivi o psicologici dei ragazzi, non solo potenzialmente transitori, ma soprattutto estremamente delicati, che andrebbero accolti con attenzione e rispetto, non certo con automatismi pericolosi innanzitutto per il benessere di chi presenta un disagio.
Osserviamo invece che, in base ai regolamenti proposti da sempre più istituti scolastici che applicano la “carriera alias”, ai fini del cambio del nome sui documenti interni alla scuola, la famiglia di uno studente non deve far pervenire alcuna certificazione medica o psicologica di disforia di genere, né alcuna certificazione degli indicatori che rendono clinicamente certa la correttezza e la stabilità della diagnosi e del relativo percorso di transizione. Si richiede solo un generico certificato che attesti l’aver intrapreso un non specificato e altrettanto generico percorso psicologico o medico.
Ci appare grave consegnare a una mera dichiarazione la presa d’atto di un cambiamento che, come già illustrato, ha conseguenze notevolissime sugli adolescenti che la richiedono e, a cascata, su tutta la comunità scolastica, di cui fanno parte i nostri figli. Conseguenze che, come si può ben immaginare, vanno ben oltre la sola modifica del nome sul registro o su altra documentazione riservata e fanno sorgere numerosi interrogativi: chi deciderà in che bagno potrà accedere quel ragazzo? In che camera dormirà in gita scolastica? Quali temi educativi si chiederà di promuovere nella scuola e in che modo?
Come associazione abbiamo più volte fatto presente al MIUR e agli Uffici Scolastici regionali questo grave problema, sempre più frequentemente segnalatoci da genitori la cui preoccupazione viene spesso stigmatizzata – ahinoi – come “medievale arretratezza”, mentre in realtà è indice di quella premurosa attenzione per i ragazzi e per la scuola che tutti gli adulti responsabili dovrebbero avere.
Ad oggi nessun provvedimento è stato emesso da parte degli organi competenti, ma ci auguriamo, anche a seguito di ciò che è recentemente avvenuto in Inghilterra, che qualcosa possa presto cambiare.