Se è vero che i costumi variano, che la cultura si modifica, che la società cambia (in che direzione?) è anche vero che ci sono ruoli che non sono intercambiabili e ne è la riprova da un lato l’esperienza degli psicoterapeuti (proponiamo qui sotto un estratto da un contributo di Claudio Risè sul tema) e dall’altro lato lo sguardo di tutti noi, che ci troviamo ad osservare come i giovani, quando si ritrovano privati, ad esempio, del punto di riferimento costituito dalla figura paterna, spesso risultano essere meno stabili o se non altro più disorientati.
Oggi un certo tipo di informazione che va per la maggiore, pescando a piene mani lì dove il pensiero si è fatto nel tempo più radicale, intende far passare il messaggio che, per un figlio, mamma e papà non siano più così necessari: poco più che costruzioni culturali e poco meno di concetti antroplogici, per certi versi solo vecchi retaggi da superare… L’impressione è che chi sostiene contro ogni dato di realtà posizioni di questo tipo sia più interessato alla propaganda di una ideologia piuttosto che al “best interest” dei bambini.
Non basta un documento per fare un genitore
di Claudio Risé, da “La Verità”, 6 maggio 2018Ma chi è, poi, il padre? Non potrebbe essere, come sostengono i “decostruzionisti”, a cominciare da Judith Butler, autrice della “teoria del genere”, un’invenzione culturale, un ruolo come un altro, un mestiere che ha avuto un certo successo per qualche tempo, ma destinato ad essere abbandonato nel percorso della storia? Come del resto la madre, che in Italia e altrove viene oggi cancellata con un tratto di penna da sindaci di comuni grandi e piccoli, da Torino a Gabicce mare, e sostituita da 2 papà da certificato, acquirenti di bimbi negli USA? Nulla prova però che la parentela, struttura antropologica fondamentale nella storia umana, sia sostituibile con contratti d’acquisto, e tutto sembra invece testimoniare il contrario. Il padre, colui che genera e svolge poi ruoli decisivi nell’educazione e sviluppo del bambino risulta una presenza insostituibile per la vita e l’equilibrio delle persone e della società. Senza di lui non c’è né crescita dei bambini né pace nel mondo. Questa non è solo l’esperienza quotidiana dell’analista che se lo sente raccontare dalle pazienti quando dopo tempeste caratteriali riprendono in casa il marito e raccontano il loro stupore davanti alla docilità con la quale ora i bambini vanno adesso a dormire senza far storie, e alla strana tranquillità che sembra regnare in casa. Ha probabilmente a che fare con le ragioni che fecero lanciare a Barack Obama (non proprio un maschilista convinto) un appello al padri affinché tornassero a casa a svolgere le proprie funzioni, perché gli Stati Uniti d’America avevano bisogno di loro: senza di essi, spiegò, la crescita dei loro figli e il benessere della nazione erano in pericolo. Molte ragioni della necessità della presenza paterna sono documentate dalle statistiche, almeno negli Stati che le fanno e soprattutto le diffondono. Esse rivelano che i figli cresciuti in famiglie dove non c’è un padre (ormai maggioranza negli USA e in grandi metropoli europee) sono in testa a tutti i comportamenti autodistruttivi e antisociali dall’uso di droghe alle aggressioni, ai crimini, e nella scuola. I loro risultati sul lavoro sono peggiori di quelli cresciuti in famiglie con un padre, le loro relazioni più povere, la loro vita più breve. Non è un destino segnato, ma certo l’indicazione di un rischio maggiore rispetto a quelli che il padre ce l’hanno. Perché però la presenza del padre influisce così tanto sulla personalità e nella vita? La mia risposta (ma anche quella di un non credente come Bronislaw Malinowski, uno dei fondatori dell’antropologia) è che il padre è il testimone della componente trascendente nella psiche e vita umana, decisiva per collegare profondamente l’individuo agli altri, al gruppo e alla società, che senza questa figura si decompone e dissolve. È l’aspetto trascendente a dare forza e profondità anche al sesso, il cui territorio, per Malinowski (come si vede nell’esperienza analitica) sconfina spesso nel sacro, cui la figura paterna è in ogni cultura legata. È la consapevolezza e relazione con l’aldilà che ci fa star bene nell’aldiquà. Il padre è la figura che collega queste due dimensioni.
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La realtà, come dimostrano i popoli tradizionali, è molto più semplice: “La famiglia, fatta di marito, moglie e figli è la norma stabilita dal gruppo, che prevede anche per ogni membro una parte precisamente definita”, come spiega Malinowski. Dalla fedeltà a questo programma antropologico, con qualche ovvia variazione, dipende il benessere individuale e quello della società. Tra gli esseri umani, il padre, la madre, i figli non sono figure esclusivamente naturali ma ancora meno solo “costruzioni culturali” dettate dalla sete di potere, o di piacere. Sono piuttosto il risultato di un attento bilanciamento di tutto ciò e di molto altro per il proseguimento della vita e della specie. La funzione del padre, costante, è quella di accogliere e proteggere il dono della vita e il suo slancio, e di rappresentarlo con amore nell’accoglienza dei figli e nella loro prima formazione. L’esercizio dell’autorità (che comunque -come dice l’etimologia della parola- deve essere sempre finalizzato a una crescita e non a un compiacimento del potere in chi lo detiene), può venire anche trasferito da un certo punto in poi ad altre figure, all’interno di una visione coerente e condivisa dalla comunità. Nella sua relativa lontananza dal corpo dei figli il padre è già rappresentante di quella distanza generante che è alla base di ogni sviluppo psicologico. Siamo lontani dai “mammi”, come dai padri/fratelli, o padri/amici dei figli. Il padre è se stesso e tutore del soffio spirituale nella vita dei figli. In questa amorosa distanza li aiuta a crescere, e insieme consente loro di contribuire a una società stabile e creativa.
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