Intervista di Articolo 26 a Miriam Incurvati, psicologa psicoterapeuta dell’età evolutiva, presidente di Aps Progetto Pioneer
Le istituzioni stanno prendendo in considerazione la salute psicologica dei nostri giovani? Cosa dovrebbero fare?
La pandemia è inevitabilmente una faccenda di difficile gestione. Molti sono stati i tentativi di arginare la problematica. Lo stato di emergenza è stato una condizione necessaria. A seguito dei primi dati sugli effetti della pandemia si è cercato di attivare delle risorse compensative.
Eppure, sussistono degli elementi critici:
- La confusione di informazioni e il susseguirsi di notizie allarmanti o addirittura accusanti.
Una ricerca del Dipartimento di Economia politica e Statistica dell’Università degli Studi di Siena ha dimostrato che i ragazzi seguono le notizie sulla pandemia, anche in riferimento a quello che succede negli altri Paesi. Più di 2 su 3 si dicono abbastanza informati, con il 74% che cerca notizie di attualità in misura pari o superiore rispetto a prima. L’aumento della ricerca di informazioni sarebbe dovuto corrispondere ad una maggiore cura dei messaggi diffusi. Sarebbe utile il ritorno ad un’etica che regolamenti il sistema di informazioni mediatiche, che garantisca trasparenza ed autenticità della rete informativa. - La disorganizzazione nella gestione della pandemia a livello locale e generale, ha creato notevoli disagi.
Pensate a tutti quei ragazzi già portatori di handicap, o già provati da una psicopatologia, seguiti da enti di assistenza pubblica, che sono rimasti purtroppo soli per molti mesi. La confusione, la burocrazia, il lungo tempo trascorso prima di attivare pratiche di medicina on-line hanno creato ulteriori ferite. Questo può essere quindi il tempo di rispondere alle esigenze e alle richieste di aiuto, di riprendere in mano le terapie sospese, di fare spazio nel pubblico come nel privato a chi ha veramente bisogno. - Le istituzioni dovrebbero prendere in considerazione i numeri di ragazzi privati dallo sport e trovare delle soluzioni a lungo termine per rispondere al bisogno di socializzare e sfogarsi.
- Il disagio post pandemia, ormai evidente, esige ascolto. In questo senso si muovono le proposte sulla legge di bilancio in merito al bonus psicologico.
In questo tipo di scenario come si inserisce la guerra tra Russia e Ucraina? Che tipo di impatto può avere sui nostri giovani? Cosa possiamo fare noi adulti?
La guerra alle porte dell’Italia è una condizione che fa piombare i nostri ragazzi e bambini in un ulteriore condizione di estrema precarietà. Si passa da una preoccupazione ad un’altra, si è continuamente sotto pressione. La nostra epoca è già segnata da un clima tendente all’ansia. Il controllo è diventato una specie di parola d’ordine, non solo nella relazione con gli oggetti: antifurto per controllare la macchina quando non ci sono, videocamere in casa per tenere d’occhio l’ambiente domestico, braccialetto con gps al polso del mio bambino per non perderlo etc. Ma ancor di più, in questi ultimi anni è stato alimentato un clima di grande tensione. La pandemia ha diffuso la paura del contagio, dell’entrare in contatto con l’altro, dell’uscire da casa, del vedere tante persone, solo per citarne qualcuno. Ora, la notizia dello scontro riattiva ed espande ogni tipo di apprensione.
Ora provando a fare un passo avanti nell’osservazione della diffusione di questa informazione nel nostro paese, notiamo molteplici aspetti.
Il conflitto bellico ha certamente attivato tante iniziative positive qui in Italia, come in altri paesi: la raccolta di aiuti agli ucraini, le famiglie che si aprono ad accogliere profughi, i cartelloni sulla pace dei bambini della scuola dell’infanzia, i pensierini sulla libertà dei bambini delle elementari. Eppure, se si guarda con occhio attento non c’è solo questo. Lentamente sembra insinuarsi anche un fare facinoroso, un’esigenza di schieramento. Tutto questo sembra fomentare l’odio anche nei piccolissimi.
Chiara, un’insegnante delle scuole elementari, racconta come abbia trovato sul diario, scritto da un suo piccolo alunno, il nome del presidente russo seguito dalla parola ti odio. E’ così che la maestra ha ben pensato di avviare un percorso didattico di promozione della pace. In effetti però, siamo circondati da messaggi anche divisivi e belligeranti, che alimentano la ricerca del cattivo e del colpevole. E’ possibile rimandare al concetto di complessità, assolutamente necessario per spiegare un fenomeno così serio. Evitare di creare faziosità e pregiudizi è estremamente inclusivo.
Interessante al riguardo, ad esempio, l’iniziativa promossa dalla scuola russa romana Znanie che ha attivato un corso di lingua italiana per bambini e famiglie ucraini. La possibilità di testimoniare una collaborazione, una disponibilità, un dialogo è quindi possibile. Possiamo anche noi pensare di educare ad evitare discriminazioni e costruire, invece, ponti.
Inoltre, il Covid, la Guerra, la paventata crisi economica, tutto questo espone i nostri ragazzi ad un susseguirsi potenzialmente pericoloso di violenza. Liliana Segre senatrice a vita, ha dichiarato: “temo di vivere abbastanza per vedere cose che pensavo la storia avesse definitivamente bocciato, invece erano solo sopite”. La violenza è qualcosa di insito nella natura umana come in quella animale, fa parte degli istinti, pertanto delle spinte più arcaiche della nostra mente e dei nostri pattern comportamentali. La guerra è il segnale più evidente di come la violenza possa ripercuotersi su noi stessi, della capacità autodistruttiva della nostra specie.
Eppure i conflitti non sono solo fuori casa. Molti ragazzi delle medie sentono di potersi battere per la pace, eppure non riescono neanche a gestire i piccoli conflitti relazionali con i coetanei, quelli tipici dell’età, quelli che avvengono in luoghi molto vicini, tra i banchi di scuola. Credo sia utile riflettere su come possiamo concretamente aiutarli. Potremmo pensare, insieme a molto altro, ad un lavoro interdisciplinare, in collaborazione con le famiglie, di educazione al litigio. Alcuni pedagogisti hanno già da tempo aperto studi e proposte in questo senso (D. Novara ne è un esponente italiano).
Infine, ritengo d’obbligo focalizzare l’attenzione su come parlare di questi temi con le nuove generazioni. Molti autorevoli enti e professionisti si sono già pronunciati al riguardo. Di seguito cerchiamo di sintetizzare qualche punto:
- 1. Calibrare la risposta in base all’età. Come suggerito da Emergency per i piccoli si può far riferimento ad una filastrocca o ad una fiaba. Non servono informazioni storiche, o geopolitiche, ma solo parole che aiutino a comprendere quello che sta avvenendo. Con i bambini più grandi si può far riferimento, invece, a quello che vedono e che hanno visto in passato. Cartoni, film, libri che raccontano la guerra, possono essere uno strumento di comprensione dell’attualità.
- È importante fare molta attenzione ai contesti scolastici, dove i bambini possono mal comprendere spiegazioni riguardanti la guerra o addirittura sentire contesti ostili e discriminatori. Nei giorni a dietro abbiamo assistito anche ad eventi piuttosto discutibili di insegnanti che hanno chiesto ai bambini russi di chiedere ai genitori il loro parere su Putin (TG regionale Abruzzo data 06/03/2022).
- È importante, però, arrivare complessivamente preparati alle domande dei bambini, non solo rispetto alle nozioni ma anche al nostro stato emotivo sull’argomento. La paura, il terrore, la preoccupazione emergono dalle nostre parole; è quindi utile esserne consapevoli. Filtrare i nostri stati emotivi non per nascondere al bambino cosa l’adulto prova, ma per non caricarlo eccessivamente.
- Fornire informazioni non vuol dire saper rispondere a tutte le domande. Puoi tranquillamente dirgli che non sai ancora come andrà a finire, ma la cosa più importante è che senta che tu ci siete e ci sarai sempre al suo fianco ad affrontare la situazione
Bibliografia
D. Novara, M. Versaglia, Io imparo a litigare, 2021, Rizzoli editore
https://www.emergency.it/blog/pace-e-diritti/come-spiegare-la-guerra-ai-bambini-e-ai-ragazzi/